
Due artisti. Uno respira, l’altro trattiene il fiato.
La sottile differenza tra chi crea e chi aspetta che gli altri falliscano.
Nel 2025, essere artisti è diventato un mestiere ad alto rischio emotivo. Perché il mondo guarda, scrolla, commenta, e tu devi rimanere in piedi, possibilmente con qualcosa da dire. E lì si apre una faglia. Non tra chi ha successo e chi no. Ma tra chi continua a creare e chi si è fermato da tempo, anche se non lo ammette nemmeno a se stesso.
DI CARMELO IMBESI
C’è un artista che vive l’arte come un respiro lungo, profondo, a volte affannato, ma sempre vivo. Entra nel suo studio come in un tempio: accende la luce, apre il quaderno degli appunti e si chiede cosa può costruire oggi. Non gli interessa dimostrare qualcosa: ha già vinto, perché continua. Non si guarda attorno per spiare gli altri, ma per ispirarsi. Vive l’arte come una fiamma, non come una vetrina.
È quello che sbaglia strada, cambia, si rimette in discussione. Che pubblica un album e lo lascia parlare. Che smette di suonare per un anno e poi torna con un’idea nuova. Che magari lavora in un ufficio part-time, ma di notte scrive. E non chiede il permesso a nessuno.
Parla poco degli altri e molto delle cose che ama: un libro di Bolaño, un accordo che non sapeva di amare, una fotografia sgranata scattata in tour, del suo amore verso il silenzio . E se un collega ottiene un invito in TV, lo guarda, magari si emoziona. E torna al proprio foglio bianco.
E poi c’è l’altro.
Quello che sbuffa sui post dei colleghi. Che osserva più i cartelloni degli altri che la propria agenda. Che mastica rancore altrui come fosse pane duro. Quello che ha smesso di scrivere, ma non di giudicare.
Magari non incide un brano da anni, ma ha sempre qualcosa da ridire su chi lo fa. Che conosce l’algoritmo meglio del pentagramma, ma incolpa il mercato per ogni sua assenza. Che quando vede un collega vincere un premio, borbotta: “È tutta pubblicità”.
Questo artista non respira: trattiene il fiato e aspetta che qualcun altro fallisca. Vive l’arte come una competizione tossica, un quiz a premi in cui lui non è mai stato chiamato sul palco.
La sua creatività è ferma. Il suo linguaggio è diventato commento. Sui social lo riconosci subito: ironico, acido, sempre sul filo tra sarcasmo e rabbia repressa.
Il primo artista ha capito. Il secondo ancora no.
Il primo ha smesso da tempo di contare followers, premi, strette di mano fasulle. Parla di progetti, di visioni, di idee che non hanno ancora una forma ma che lo svegliano di notte. Studia. Cambia pelle. Fa domande.
Ha capito che la musica non lo deve salvare da niente, ma accompagnare.
Il secondo invece ha il cassetto pieno di partiture ingiallite: commenta sempre, suona mai. Ogni successo altrui è una pugnalata: “conosco uno che lo conosce e mi ha detto che…”.
Non ha più idee, solo risentimento. Critica chi suona troppo, chi pubblica troppo, chi promuove troppo. Ma sotto sotto odia solo se stesso per non averci creduto abbastanza.
Non serve fare nomi, ci siamo capiti.
Nel frattempo, l’altro artista — quello che respira — ha di nuovo cambiato pelle e pubblica una raccolta di poesie. Forse non diventerà mai famoso. Ma è vivo. E lo senti. Uno ha un diario pieno di idee. L’altro, un archivio di lamentele.
La differenza non è nel talento.
È nella visione, nella cura, nel perdono verso se stessi.
Nel capire che si può sbagliare tutto, ma se stai creando, sei vivo. Perché l’artista soddisfatto è quello che non si sente mai arrivato, ma sa da dove viene. Quello frustrato è fermo a una stazione che non esiste, aspettando un treno che non partirà mai.
E ripeto: Non è una questione di talento. È una questione di scelta.
Questa non è una parabola morale. Nessuno dei due è migliore dell’altro. Ma uno ha deciso di restare aperto. L’altro ha chiuso tutto e ha gettato la chiave. Uno ha ancora fame di domande. L’altro ha solo voglia di risposte comode.
Una volta lessi una frase di un collega che aveva fatto pace con le proprie paure: “Il vero artista è quello che non smette mai di cercare. L’altro smette prima ancora di iniziare.”
In un’epoca in cui tutti parlano di “essere se stessi”, l’unico modo per esserlo davvero è continuare a fare. Anche quando è faticoso. Anche quando non paga.
Essere artisti oggi è questo: non urlare il proprio ego, ma trovare ancora un senso nella creazione.
Perché c’è chi respira. E c’è chi trattiene il fiato.
E la differenza, credetemi, c’è.